Lei stamattina si è svegliata male. A volte le capita. Lo stomaco
pulsa, la testa ragiona lentamente, vede tutto come se avesse una patina grigia
appoggiata sopra. Non ci sono motivi particolari. E quando è così, allora a
volte le viene in mente lui.
Lui era bello. Era un suo compagno delle medie, ripetente. Si ricorda
il primo giorno di scuola, la prof di francese che li aveva accolti nella nuova
classe. Lui era al primo banco. Capelli scuri, mossi, un po’ lunghi. Occhi neri
e profondi, faccia da furbetto. Era l’ultimo di tre o quattro figli, arrivato
tanti anni dopo gli altri. Era già zio, la prima sorella era sposata con una bambina.
Gli altri
maschi avevano fatto gruppo con lui, all'inizio perché era più grande, poi perché aveva sempre qualcosa da raccontare o da organizzare, qualcosa da
combinare.
La famiglia non lo seguiva moltissimo, diciamo che era sempre quello
che i soldi per la gita li portava il giorno stesso e i libri li portava in
classe la seconda o terza settimana di lezione.
Però. Era il più bello della scuola. Soprattutto
in terza, quando loro erano “i grandi”. Le ragazzine morivano per lui.
E anche
a lei piaceva, un po’. Certo, era scapestrato, ma era bello. Bellissimo. Lui
notava soprattutto quelle che si mettevano in mostra, quelle che lo cercavano,
e non erano poche. Lei stava ancora prendendo le misure con questo nuovo corpo
da adolescente, con i primi chiletti di troppo, di certo non stava a rincorrere
i maschi.
Poi, in terza, una qualche prof ebbe l’intuizione di metterli vicini di
banco: lei, tanto brava, avrebbe aiutato lui, che invece di studiare proprio
non ne aveva voglia, a prepararsi agli esami. E lì era scattato qualcosa, che
era cresciuto piano piano. A un paio di mesi dalla fine della scuola, si erano
messi insieme. Qualche bacio, le passeggiate mano nella mano durante l’intervallo,
studiavano insieme per gli esami e il
risultato era che lui andava meglio, lei invece durante le lezioni si distraeva
a guardarlo. Nemmeno ci credeva, che il più bello della scuola avesse scelto
proprio lei.
Dopo gli esami era diventata una storia come le altre, durante l’estate
lei l’aveva lasciato. Per un altro. Che a sua volta, alla fine delle vacanze,
aveva lasciato lei. Loro si erano persi di vista, erano andati in due scuole
diverse.
Al liceo, lei; all'istituto tecnico lui. Le dicevano che aveva il
motorino, cambiava fidanzata ogni settimana, aveva iniziato a fumare, a scuola
non andava certo bene. E lei pensava a volte che quello di cui le raccontavano
le gesta era lo stesso che al telefonino – in prestito di sua mamma – mentre lei
lo lasciava, aveva detto “Ma come, ma no! Io sono qui che parlo di te tutti i giorni,
che conto con i miei amici i giorni che mancano al tuo ritorno…”.
Poi, un giorno d’agosto, due anni dopo averlo lasciato, lei era nello
stesso luogo di villeggiatura di sempre. Aveva ricevuto una chiamata sul
cellulare, questa volta il SUO cellulare, da un’amica che sentiva raramente. L’amica,
tra i singhiozzi le aveva solo detto: “G. è morto”. Lei aveva visto nero. Si era
seduta, per terra, lì dov'era, sul marciapiede. Il funerale sarebbe stato il
giorno dopo. Era stato un incidente, lui era affogato in un fiume. Quando il
nero dai suoi occhi era sfumato, lei era corsa, in lacrime, da sua mamma.
Al funerale
non ci erano andati, ma ad una commemorazione per G. sì, qualche giorno dopo il
rientro dalle ferie.
La madre aveva distribuito un'immagine di lui, con una frase. "Non c'è dono più grande di chi dona la propria vita per i suoi amici".
Erano stati al cimitero, dove la lapide non era ancora
pronta e la Sua bara era coperta solo da cemento bianco e da una foto attaccata
con il nastro adesivo. Lei aveva anche parlato durante una commemorazione fatta
alla loro scuola media, durante una qualche festa, forse quella di Natale. Non sa
ricordare cosa disse quel giorno. Negli anni, aveva ancora pianto, tante volte.
Da quel momento, lei aveva pensato spesso a lui, e a volte credeva che se
non lo avesse lasciato, quel giorno, forse tutto sarebbe stato diverso. Di sicuro,
tutto sarebbe stato diverso.
E forse quel giorno lui sarebbe stato con lei, al
mare, con i suoi, chissà. E non al fiume, dove due amici, mentre facevano il
bagno, si erano sentiti male. E allora lui, non essendo là, non si sarebbe
tuffato per salvarli, finendo poi intrappolato in un vortice. Lui non sarebbe stato
tirato fuori, sdraiato sulla spiaggia e coperto da un telo. I carabinieri non
avrebbero chiamato sua mamma per dirle “Signora, deve venire qui, è successo
che suo figlio è affogato”.
Insomma, per lungo tempo lei si era chiesta se quello
che era successo non fosse anche colpa sua. Poi una notte aveva sognato Lui,
che le parlava e le diceva che la perdonava.
Quando era incinta, di poche settimane, aveva sognato lui che le diceva
“Sai, a volte ci danno la possibilità di tornare. Perché io sono morto giovane,
non ho visto quasi niente della vita. Adesso potrò vedere tutto.”
E Lei aveva
saputo che il bambino che portava in grembo era maschio, e aveva anche deciso
il nome.
Ora quel nome lei lo ripete tutti i giorni, centinaia di volte, perché
è quello del suo bambino. Ed è da un po’ che non sogna Lui.
Ma lo rivede, a
volte, negli occhi di suo figlio.
Quel figlio che appena nato, per qualche
giorno aveva avuto i capelli ricci e neri, e solo lei sa il perché, dato che in
famiglia sono tutti biondi.
Questo post finisce con una frase, di un film, detta da Penelope Cruz:
“È
la prima volta che racconto questa storia.”
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