giovedì 12 settembre 2013

Un nodo allo stomaco

Lei stamattina si è svegliata male. A volte le capita. Lo stomaco pulsa, la testa ragiona lentamente, vede tutto come se avesse una patina grigia appoggiata sopra. Non ci sono motivi particolari. E quando è così, allora a volte le viene in mente lui.

Lui era bello. Era un suo compagno delle medie, ripetente. Si ricorda il primo giorno di scuola, la prof di francese che li aveva accolti nella nuova classe. Lui era al primo banco. Capelli scuri, mossi, un po’ lunghi. Occhi neri e profondi, faccia da furbetto. Era l’ultimo di tre o quattro figli, arrivato tanti anni dopo gli altri. Era già zio, la prima sorella era sposata con una bambina.
Gli altri maschi avevano fatto gruppo con lui, all'inizio perché era più grande, poi perché aveva sempre qualcosa da raccontare o da organizzare, qualcosa da combinare.
La famiglia non lo seguiva moltissimo, diciamo che era sempre quello che i soldi per la gita li portava il giorno stesso e i libri li portava in classe la seconda o terza settimana di lezione. 
Però. Era il più bello della scuola. Soprattutto in terza, quando loro erano “i grandi”. Le ragazzine morivano per lui. 
E anche a lei piaceva, un po’. Certo, era scapestrato, ma era bello. Bellissimo. Lui notava soprattutto quelle che si mettevano in mostra, quelle che lo cercavano, e non erano poche. Lei stava ancora prendendo le misure con questo nuovo corpo da adolescente, con i primi chiletti di troppo, di certo non stava a rincorrere i maschi.

Poi, in terza, una qualche prof ebbe l’intuizione di metterli vicini di banco: lei, tanto brava, avrebbe aiutato lui, che invece di studiare proprio non ne aveva voglia, a prepararsi agli esami. E lì era scattato qualcosa, che era cresciuto piano piano. A un paio di mesi dalla fine della scuola, si erano messi insieme. Qualche bacio, le passeggiate mano nella mano durante l’intervallo, studiavano insieme per gli esami e  il risultato era che lui andava meglio, lei invece durante le lezioni si distraeva a guardarlo. Nemmeno ci credeva, che il più bello della scuola avesse scelto proprio lei.

Dopo gli esami era diventata una storia come le altre, durante l’estate lei l’aveva lasciato. Per un altro. Che a sua volta, alla fine delle vacanze, aveva lasciato lei. Loro si erano persi di vista, erano andati in due scuole diverse. 

Al liceo, lei; all'istituto tecnico lui. Le dicevano che aveva il motorino, cambiava fidanzata ogni settimana, aveva iniziato a fumare, a scuola non andava certo bene. E lei pensava a volte che quello di cui le raccontavano le gesta era lo stesso che al telefonino – in prestito di sua mamma – mentre lei lo lasciava, aveva detto “Ma come, ma no! Io sono qui che parlo di te tutti i giorni, che conto con i miei amici i giorni che mancano al tuo ritorno…”.

Poi, un giorno d’agosto, due anni dopo averlo lasciato, lei era nello stesso luogo di villeggiatura di sempre. Aveva ricevuto una chiamata sul cellulare, questa volta il SUO cellulare, da un’amica che sentiva raramente. L’amica, tra i singhiozzi le aveva solo detto: “G. è morto”. Lei aveva visto nero. Si era seduta, per terra, lì dov'era, sul marciapiede. Il funerale sarebbe stato il giorno dopo. Era stato un incidente, lui era affogato in un fiume. Quando il nero dai suoi occhi era sfumato, lei era corsa, in lacrime, da sua mamma. 

Al funerale non ci erano andati, ma ad una commemorazione per G. sì, qualche giorno dopo il rientro dalle ferie. 
La madre aveva distribuito un'immagine di lui, con una frase. "Non c'è dono più grande di chi dona la propria vita per i suoi amici".
Erano stati al cimitero, dove la lapide non era ancora pronta e la Sua bara era coperta solo da cemento bianco e da una foto attaccata con il nastro adesivo. Lei aveva anche parlato durante una commemorazione fatta alla loro scuola media, durante una qualche festa, forse quella di Natale. Non sa ricordare cosa disse quel giorno. Negli anni, aveva ancora pianto, tante volte.

Da quel momento, lei aveva pensato spesso a lui, e a volte credeva che se non lo avesse lasciato, quel giorno, forse tutto sarebbe stato diverso. Di sicuro, tutto sarebbe stato diverso. 

E forse quel giorno lui sarebbe stato con lei, al mare, con i suoi, chissà. E non al fiume, dove due amici, mentre facevano il bagno, si erano sentiti male. E allora lui, non essendo là, non si sarebbe tuffato per salvarli, finendo poi intrappolato in un vortice. Lui non sarebbe stato tirato fuori, sdraiato sulla spiaggia e coperto da un telo. I carabinieri non avrebbero chiamato sua mamma per dirle “Signora, deve venire qui, è successo che suo figlio è affogato”. 
Insomma, per lungo tempo lei si era chiesta se quello che era successo non fosse anche colpa sua. Poi una notte aveva sognato Lui, che le parlava e le diceva che la perdonava.

Quando era incinta, di poche settimane, aveva sognato lui che le diceva “Sai, a volte ci danno la possibilità di tornare. Perché io sono morto giovane, non ho visto quasi niente della vita. Adesso potrò vedere tutto.” 
E Lei aveva saputo che il bambino che portava in grembo era maschio, e aveva anche deciso il nome.

Ora quel nome lei lo ripete tutti i giorni, centinaia di volte, perché è quello del suo bambino. Ed è da un po’ che non sogna Lui
Ma lo rivede, a volte, negli occhi di suo figlio. 
Quel figlio che appena nato, per qualche giorno aveva avuto i capelli ricci e neri, e solo lei sa il perché, dato che in famiglia sono tutti biondi.



Questo post finisce con una frase, di un film, detta da Penelope Cruz: 
“È la prima volta che racconto questa storia.”

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